Si parte. Ancora. E non c’è niente da fare, non c’è niente al mondo che mi dà la stessa sensazione, quel brivido, quella vertigine, quel misto di sensazioni che si confondono tra i tratti della gioia e dell’essermi dimenticata qualcosa. Panico.
giugno 2012
Tra un viaggio e l’altro si fanno anche esperienze a casa, e anche a casa si possono scoprire mondi interi che sono sempre rimasti lì, in attesa, pazienti. Uno di questi mondi per me era Bruce Springsteen e la sua musica. Un mondo che, finalmente, dopo il concerto di Trieste, si è schiuso.
“It aint no sin to be glad you’re alive”
Non è che non so nulla di musica, ho solo dei buchi. Buchi grandi come voragini su Marte, ma buchi. Sono cresciuta a pane Elvis e Beatles, il mio lettore si rifiuta di far girare ancora Paint it Black e Battisti era l’unico che riusciva a farmi addormentare. In senso buono, ovvio. E poi nulla. A parte una passione nata nell’adolescenza per i Metallica. Un po’ di spazzatura qua e là, schifezze da radio, roba che si ascolta in piscina d’estate.
E poi arriva lui, no, non Bruce. E’ arrivato l’uomo che si è fatto largo e ha piazzato il suo sedere occupando tutto lo spazio nel mio cuore. E lui, si, è uno springsteeniano, che troppo spesso e poco volentieri mi imponeva degli “ascolta questa, leggi il testo”, per poi inversare gli angoli della bocca all’ingiù e sentirmi dire “a me sta roba non piace”. Mi ha dedicato canzoni, le ha messe come sfondo a serate romantiche, è arrivato a togliermi la mia roba dall’ipod per imporre la sua “perché ti devi fare una cultura musicale”, e tutto quello che è riuscito ad ottenere è stato un litigio.
E poi, la soluzione finale, probabilmente memore della celebre frase “Nel mondo ci sono solo due tipi di persone: quelle che adorano Bruce Springsteen e quelle che non l’hanno mai visto in concerto”, mi ha comprato un biglietto. “E se poi non ti piace lascio perdere.”
E poi lui. Lui, Bruce. Sale sul palco, lo stadio esplode, lui sorride. Mi ha già fregata.
Mi sono DIVERTITA. Dietro di me c’era un tizio che spiegava alla neo morosa (dev’essere per forza una roba fresca perché nessuna donna può sopportare uno così per più di due settimane) tutto quello che doveva fare: alza le mani così, fai cosà. Questa canzone significa questo e quest’altro. Ma lasciala ballare! Io sono stata abbracciata e poi “lasciata alla transenna”, e le mie gambe non sono state ferme un attimo. Oltretutto era impossibile fare altrimenti accanto a due scatenate che stanno seguendo tutti i concerti in giro per l’Europa. Fino a ieri ho detto “che voglia che hanno di vedersi magari 10 concerti”, ieri sera ho chiesto “ma coma fanno col lavoro?”.
E poi la carica di Working On The Highway e Born to Run, la gioia di cantare Rosalita per una ragazza che l’ha chiesta per “ma and pa”, e la dolcezza di The river, che ti fa solo voglia di farti prendere per mano e lasciarti vivere.
Mio padre, appena tornata a casa mi ha chiesto come era stato, come era andata, e io a parte un banale e ridicolo “bellissimo”, non sono riuscita a elaborare niente di più.
Ho fatto pace con Bruce, con Rosalita, Frank e Joe, Mary, Sally e tutti quei personaggi delle sue storie che adesso cominceranno a far parte della mia.
Bruce, ce l’hai fatta, hai fregato anche me.
Tu e quegli springsteeniani che hanno il vizio di contagiare tutti col tuo “verbo”. Adesso, almeno, capisco perchè.
E quando apri gli occhi e sai che si, quello è l’ultimo giorno, che è la penultima notte che dormirai in un letto non tuo, dopo che di letti ne hai cambiati quasi uno ogni notte per 50 giorni, che dovrai tornare a vivere la tua vita,guardare sempre la stessa parete ogni volta che stai per chiudere gli occhi…è dura. Molto dura. Il tempo ricomincia quando sei a casa, perchè il tempo del viaggio, almeno io, l’ho sempre vissuto come tempo sospeso, lontano dalla realtà, come se tutto si fermasse in attesa del
Sono stata una pendolare per anni. Il che significa che ho vissuto sulla mia pelle ore di tempo vissute con pazzi scriteriati, puzzolenti esseri con la grandiosa mania di togliersi le scarpe e impestare intere carrozze, maniaci sessuali, intere famiglie di bambini urlanti, gente che racconta tutti i suoi affari al telefono ad un volume così alto che potrebbero tranquillamente posare il cellulare e farsi sentire, ovunque l’interlocutore fosse dislocato.
Ultimo giorno nella poetica Kyoto, dobbiamo vedere tutto quello che era in programma ed il primo regalo della giornata è un bellissimo sole. E’ una maratona, ma senza l’obbligo di sudare e di farsi venire un embolo, e ovviamente, con la possibilità di farsi un matcha di tanto in tanto.
Colazione in una stazione della metro. Detta così sa di autogrill sudicio, ma la realtà è molto diversa. Bakery. Brioche di ogni genere e sorta (la mia con cannella e noci), panini, bidoni di caffè bollente, un profumo inebriante di panetteria con pasticceria annessa (che poi è quello che è!) e i miei occhi che sono sempre più grandi della pancia. Dopo questo sono in grado di superare qualsiasi ostacolo o qualsiasi scarpinata distruggi gambe.
Le tappe della giornata sono:
1- Foresta di bambù
2- Pagoda d’oro
3- Castello di Nijo (si, ma non è roba con bastioni e torrette, il
concetto di “castello” da queste parti è molto diverso)
4- Ginkaku-ji (un giardino splendido con, nel centro, una distesa di
sabbia bianca rastrellata alla perfezione, coni e disegni) con annessa passeggiata della filosofia.
Ma cominciamo dall’inizio
Amo Kyoto. E’ davvero piacevole e ricchissima di cose da visitare (più di Tokyo), ha un gusto retrò che mi piace…e molto. Però ha unapecca, ammettiamolo. I mezzi! Siamo in Giappone e tutto è sempre scritto nei due caratteri giapponesi prima di riuscire a capire in inglese “dove sei,dove devi scendere, più che altro ho preso l’autobus giusto?”. SI, perchè a Kyoto ci si sposta principalmente in autobus e questo lo sopporto davvero a fatica (anche perchè la linea JR qui copre ben poco e quindi dobbiamo sborsare cifre esorbitanti per qualsiasi corsa in tram o con i diversi mezzi). Pazienza dai, merita.