Come si fa a spiegare l’India?
Ogni giorno che passa mi rendo sempre più conto che tutto quello che mi era stato detto era veritiero, ma talmente lontano dalla realtà che sto vivendo da realizzare soprattutto la difficoltà di spiegare cosa c’è in questa parte del mondo. E’ come spiegare un’alba a un cieco.
L’India è fatta di strade rotte e impraticabili che ti spaccano la schiena quando i chilometri da fare sono tanti, di case di eternit e mattoni senza calce, di bambini che sembrano adulti e adulti che sembrano vecchi, di vacche e bufali che girano tranquillamente per i paesi senza che nessuno li disturbi, di gente che mangia alle bancarelle e beve da un secchio comune, di bagni più sporchi di quelli cinesi, di alberghi con coperte sudice e lenzuola discutibili, di autobus che vanno in pezzi con i finestrini che si aprono su spranghe di ferro, di montagne di spazzatura ad ogni angolo, di pile di dischi di escrementi che loro usano per costruire e per scaldarsi, di occhi di anziani sempre pieni di cataratta, di mani continuamente tese, di santoni che curano gli ascessi con rituali magici e preghiere.
Eppure…
Non è retorica ma dell’India, se sei predisposto, ti innamori all’istante. Perché è fatta di sari colorati, di ragazze che si nascondono timide dietro i veli, di interi villaggi che ti corrono incontro per farsi fotografare, di bambini che giocano ancora con una ruota di bicicletta e un bastone, di gente che ti offre il cibo se ti vede incuriosito, di templi, di negozi incasinati, di pile perfette di frutta, di succo di mango, di piccole comunità che ti fanno rendere conto di quanto siamo diventati aridi e solitari nel nostro mondo. E ovviamente, a me è successo. Sono anni che la sogno e paradossalmente non sta deludendo le mie aspettative. Nonostante i miei ultimi viaggi siano stati in posti fin troppo civilizzati con tratti futuristici. Qui sei fuori dal tempo, condividi i samosa con gente che ancora va a prendere l’acqua al pozzo e per cui le tapparelle elettriche sarebbero qualcosa di magico e allo stesso tempo ti accorgi che tra di loro ci sono persone che hanno delle eccellenze tali da poter mettere in ginocchio paesi occidentali in cui tutti girano con l’iphone in mano. E non capisci come possano convivere questi due mondi estremi. Non pretendo di capire l’India, non potrei e non ci sto riuscendo. Avrei bisogno di tempo, insegnamenti, pazienza. Mi limito ad assaggiarla. Come un samosa offerto da Dave-guido-come-un-pazzo-ma-non-ho-mai-seccato-nessuno.
Nel casino totale di paesini lungo la strada arida (dove oltretutto ci becchiamo anche un camion ribaltato) che parte da Gwalior il paesaggio comincia a cambiare, fino ad arrivare a una splendida oasi: Orchha.
“Il gioiello del Madhya Pradesh”, “l’anima dell’India”: si può trovare qualsiasi definizione dell’antica capitale del Bundelkhand, e direi a ragione vista la meraviglia che ti si presenta davanti. Prima di tutto c’è una fiorente vegetazione, che dopo aver visto terra secca perkm non fa mai male.
L’albergo tutto in stile coloniale ha un fascino incantevole: ci mettiamo a prendere il sole in piscina per un po’, ci gustiamo il pranzo e ci riposiamo un po’ per rallentare i ritmi. E poi al pomeriggio a vedere la cittadella e il forte.
Il palazzo Raja Mahal è ancora una volta incantevole, affacciato su un cortile interno perfettamente conservato (è stato eretto tra il 1531 e il 1539). Curioso il fatto che ai piani alti non ci fosse nessuna ringhiera di sicurezza e ci fossero buchi da cui uno poteva tranquillamente cadere.
Dopo la visita del palazzo e della old Town siamo andati nella piazza del paese, e lì è stato delirante. A parte una bambina di circa due anni che mi si è aggrappata a una gamba e non c’era verso di sganciarla, è stato davvero strano. Camminavo e lei lì, con la sua gonnellina di tulle blu e i sui occhi truccati di nero mi guardava dal basso verso l’alto senza mollare neanche per un secondo né la gamba né i pantaloni. Fuori dal tempio una cerimonia, con tutta probabilità un matrimonio. Celebrato sul muretto fuori dall’edificio, i due sposini cantavano la litania con il tizio che celebrava, schizzavano acqua su un fascio di erbetta, fiori qua e là. E poi gente, in ogni angolo. Non so neanche quante volte mi sono sentita tirare la maglietta per fare una foto. Loro si divertono a rivedersi nello schermo, a mettersi in posa con tutta l’allegra combricola.
Ho comprato dei dolci perché già ne sono drogata a casa, figuriamoci qui come devono essere… diversi tipi tutti ordinati nella loro scatolina (mi fanno impazzire, sono un macello e un disastro totale nel loro modo di vivere, però su alcune cose, come mettere i dolcetti nel cartoncino o sulle registrazioni alberghiere, sono maniacalmente ordinati), li ho assaggiati, medio-buoni, li ho rimessi in borsa. Un bambino tirandomi per la borsa li ha visti e ha cominciato a indicarli, oltre che a chiamare tutti i suoi amici.
Visto che di zuccheri non ne ho bisogno e che il mio volume sta chiaramente aumentando, ho aperto la scatola in mezzo a una marea di bambini. Mi hanno letteralmente assalita.
Tutti a spingere per prendere quanti più dolci possibili e infilarseli in bocca. Mi è salito un magone in gola difficile da spiegare. In quei momenti ti senti solo l’occidentale che si può permettere tutto.
Sentirsi fondamentalmente di merda e aver voglia di aiutare tutti… e avere la coscienza di non poterlo fare.
Straziante. Ed è ugualmente incredibilmente bella.
2 Comments
In India le mamme ti raccomandano di accettare le caramelle dagli sconosciuti.. soprattutto se sono carine e le hanno assaggiate prima di te..
14 Febbraio 2013 at 9:22come è vero questo post….
14 Febbraio 2013 at 13:18