Era una notte buia e tempestosa. Sul serio. Questo è l’incipit perfetto per descrivere il viaggio che ci ha portato a Varanasi dopo la tappa di quattro giorni ad Allahabad per il grande Kumbh Mela. In teoria, da programma, dovevamo partire al mattino prestissimo per goderci poi il pomeriggio ma in India si sa, gli imprevisti sono il pane quotidiano. Dopo la sveglia alle 2 del mattino per vedere e fotografare il bagno rituale e i naga sadu correre con le chiappe al vento siamo tornati al campo tendato per aspettare le 10 di sera perchè, in teoria, il traffico ad Allahabad doveva essere chiuso fino a quell’ora. Evviva, un pomeriggio intero buttato nel bidone. Così ci siamo messi lì buoni buoni ad aspettare in tenda, sotto una pioggia battente. Non riesco davvero a immaginarmi cosa poteva esserci al Kumbh Mela se già quando il sole spaccava i sassi si doveva camminare su una melmosa poltiglia…
Il capo villaggio (che sicuramente non sarebbe stato preso in un villaggio Valtur per l’animazione data la simpatia e il tentativo di fregarci facendoci pagare qualsiasi cosa…) è venuto ad avvisarci che potevamo partire prima, verso le 5:30… Alle 7 siamo riusciti a metterci in macchina. Tempi indiani. L’autista é il vero rincoglionito che con una macchina da 7 posti cerca di stiparci in quattro nel sedile dietro tenendo larghi i bagagli e i due sedili in fondo chiusi. Un genio. Abbiamo dovuto spiegarglielo noi e, ovviamente, spostarci da soli i bagagli e aprire almeno un sedile. Aahhhh quanto ci manca Dave-che-ho-scoperto-chiamarsi-Raj. La prima cosa che dice (e che continua a ripetere) è “no english, no english” e questo è senza ombra di dubbio il peggiore degli inizi, se poi ci si aggiungono le strade dissestate, il traffico, il buio pesto e soprattutto il diluvio direi che abbiamo tutti gli elementi per un gran bel viaggio di merda.
Incastrata tra uno zaino e una valigia coperta da un asciugamano sono riuscita ad addormentarmi per un po’ nonostante le strombazzate e le frenate… Credo pesassero molto di più le due misere ore di sonno della notte precedente.
Nel tragitto siamo stati fermi nel buio più o meno mezz’ora, non per un incidente o per un ostacolo in mezzo alla strada. No, solo perchè due macchine si erano incastrate e non sapevano più come fare! Cioè, INCASTRATE!
Il primo impatto con Varanasi è stato piuttosto traumatico. A parte il fatto che al posto di 2 ore e mezza ne abbiamo impegate 5 e mezza…
Il tassista ovviamente voleva scaricarci al primo incrocio di questa città lercia da morire con poliziotti (?) armati ovunque e scappare
più lontano possibile da noi. Poliziotti che hanno fatto spostare la macchina mentre cercavamo la guest house tra gli stretti vicoli del ghat perchè “non puó stare davanti al tempio, c’è la discoteca”. Prego?
Ci fai togliere la macchina perchè c’è un palco da giostrai con su 6 o 7 maschi che ballano house indiana?!
No comment. Ma forse questi sono solo commenti stanchi e affaticati di gente che ha dormito due ore e che si fa rimbalzare per ore su un’auto indiana con le sospensioni a puttane.
La Teerth guest house è davvero introvabile, per arrivarci non so nemmeno come Gianni e Riccardo ci siano riusciti: neanche in un gioco della Xbox i vicoli sarebbero potuti essere più stretti, pieni di mucche (e loro regalini), polizia e luci rotte. Nonostante le buone recensioni il letto era lurido, la coperta pure e sulla tazza del water ho passato 4 volte l’amuchina. Ma poco importa… Siamo a Varanasi e la stavamo aspettando da così tanti giorni che riusciamo a dimenticarci di tutto il resto.
Sveglia. Piove. Mettiamo addosso tutti i vestiti che abbiamo in valigia, ci buttiamo nei vicoli dietro ai ghat e scegliamo la colazione più occidentale che riusciamo a trovare. La buca per i turisti: Brown Bread Bakery.
Per un attimo impazzisco: torta di mele, cheesecake, torta di yogurt, pane e marmellata, muffin al cioccolato… volevo prendere tutto. TUTTO. E quindi parto con le mie richieste: brioches alla crema “mmmhh… no”, muffin “mmmhhh… no” torta di riso” mmhhh. Alla sesta richiesta gli ho domandato che cavolo di torte avesse. “Apple!”. Andata. Facciamo colazione con calma, con uno strudel (il concetto di torta non era chiarissimo evidentemente) e un chai. Litri, di chai. Che oltretutto ho chiesto appellandolo come “Chai tea latte” facendomi ridere in faccia da Gianni che mi ha fatto notare che quello è il nome di Starbucks.
Tiriamo su dai cuscini umidicci del locale le nostre stanche membra e ci dirigiamo verso la parte più interessante della città: i ghat.
Non prima di essermi ribaltata dalle scale, ovviamente. Complici le scarpe infangate e le scale bagnate sono franata per mezza rampa di scale. Stordimento. Livido ENORME sulla chiappa. Varanasi mi odia già.
I ghat, le splendide scalinate che portano al Gange, sono il fulcro spirituale della città: ci si lava, si prega, ci si purifica e ci si fa bruciare. Perchè la cosa più curiosa della città è senza dubbio poter vedere i funerali che si svolgono a bordo fiume. In effetti non è da tutti i giorni poter vedere bruciare cadaveri secondo tradizione…
Mentre camminiamo verso il fiume ci imbattiamo in almeno tre cortei funebri, con i parenti che cantando litanie accompagnano corpi portati a spalla avvolti in tessuti preziosi. Anche sotto una pioggia battente.
Ci siamo fermati sotto una tettoia, una signora che approssimativamente poteva avere tra i 120 e i 160 anni guardando le rughe ci invita ad entrare nel suo negozietto per ripararci dalla pioggia. Aspettiamo in un angolo, ci sorride e ci chiede se ci interessa qualcosa in vendita. Qualche quaderno, bustine di shampoo, due o tre lattine dentro un frigorifero praticamente vuoto. Stava lì, ci guardava, contenta che fossimo dentro il suo negozio che era anche casa sua “My house, my house”. Mi faceva una tenerezza infinita. Ho comprato qualche shampoo. Non voleva niente di più, era solo contenta che fossimo lì con lei.
Ci dirigiamo verso il Manikarnika Ghat, il luogo principale in cui avvengono le cremazioni, e in tempo zero siamo stati assaliti da procacciatori di affari che volevano farci avvicinare per fare qualche foto da vicino. Ovviamente i nostri soldi sarebbero stati dati alle famiglie per pagare il funerale e non se li sarebbero intascati loro… Non sia mai. Fregatura per fregatura chiediamo il prezzo. Siamo 5, ci chiede una cifra che si aggira intorno ai 50 € a testa. Una follia. Tanto per dare le proporzioni, in India puoi tranquillamente cenare con 3/4 euro e riempirti abbondantemente la pancia. Stiamo un po’ al gioco, vediamo dov’è il margine di trattativa. Diciamo che è ok ma che i soldi vogliamo darli direttamente ai familiari del defunto. Non sia mai, loro non possono! Sono troppo tristi per parlare ed accettare dei soldi. O a loro, o niente. Ritratta, 5 € ogni scatto che facciamo. Salutiamo, io come al solito dopo i suoi insulti e le maledizioni mi incazzo perchè l’amico tira fuori il karma e ci dice che saremo puniti visto che non diamo soldi a lui e alla vecchietta che veglia sulle salme (in un luogo di cui non ho capito bene la funzione… celle? Forni?). Gli chiedo dov’è tutta la religiosità nell’insultare della gente a cui cerchi di fregare dei soldi, lui continua a ripetere le sue tiritere, lo mando a quel paese e come al solito mi rendo conto che sono l’avvocato delle cause perse.
Ovviamente Mr. Pragmatic cerca la soluzione alternativa: se non si può arrivare ai ghat da dietro, perchè non farlo da davanti, via acqua? Noleggiamo la barca ad una cifra accettabile (circa 20 euro per un giro di un’oretta avanti e indietro sui ghat), e anche se ogni tanto spioviggina riusciamo comunque a goderci uno spettacolo incredibile.
La legna viene pesata accuratamente per determinare il costo della cremazione, i pali di legno impilati con attenzione. Più le pire sono alte, più la famiglia è facoltosa e può permettersi un grande falò, e per chi non può permettersi nemmeno la cremazione c’è comunque la possibilità di riposare in eterno dentro il Gange: vengono legati ad una pesante pietra e poi lasciati scivolare fino al letto del fiume. Mentre osservavamo silenziosamente il rituale, guardando i corpi bruciare non riuscivo a togliermi dalla testa un’immagine: Il letto del fiume in quel tratto. Cazzo, altro che Dexter! Calcolando il livello economico e che solo nel ghat principale vengono bruciati circa 200 corpi al giorno, quanti cadaveri ci saranno lì sotto?
E’ un po’ agghiacciante, ammettiamolo. Soprattutto nella stagione più calda, dove piove meno e qualche corpo si stacca dalla pietra e riaffiora. Credo sia agghiacciante. Senza mezzi termini.
Dopo tutto questo piacevole spettacolo decidiamo di… andare a pranzare! Perchè evidentemente dei corpi carbonizzati davanti ai nostri occhi non intaccano minimamente la nostra voglia di pollo tandoori. Optiamo per il Dolphin restaurant, sul tetto di un albergo (mettete in conto 6 rampe di ripide scale senza la possibilità di prendere un ascensore… Almeno coadiuva la fame!), il cibo buono, il personale mediamente gentile.
La pioggia continua ininterrottamente, a differenza della temerarietà solita decidiamo di riposarci, prendercela comoda e passare il pomeriggio sorseggiando chai e mangiando dolcetti nella Bakery, dove incontriamo un gruppo di italiani in viaggio spirituale. Decisamente interessante.
Tutto quello che seguirà dopo questa riga potrà essere definito il mio incubo formato India.
C’è chi dice che ho fatto troppo la furba e ho detto troppe volte che non ho mai avuto problemi di dissenteria, vomito o affini: la verità è che ho sempre mangiato qualsiasi cosa, a qualsiasi bancarella dalle mani di qualsiasi persona e non ho mani avuto nessun tipo di problema. Fino a Varanasi.
La sera io e Gianni decidiamo di tornare a mangiare qualcosa al Dolphin, usciamo dalla panetteria e ci dirigiamo verso il locale in cui avevamo anche pranzato. Il vento era terribile, fortissimo e gelato. Il ristorante stava chiudendo e abbiamo, quindi, mangiato in un quarto d’ora (e già questo è fuori dalle mie abitudini). Usciamo, vento e pioggia. Una notte da incubo, congestione.
Mi sono rotolata nel letto tutta la notte senza pace, ho riproposto la mia cena al water dell’ostello. E’ incubo. Blackout.
La mattina sono, per la prima volta in vita mia, rimasta a letto. Senza forze e a distanza ravvicinata da un bagno. Non so bene come siamo arrivati prima in aeroporto e poi a Calcutta. Mi sa che Varanasi sarebbe tutta da rivedere.
E’ una città dal fascino strano, mistico, è come un’India diversa dentro l’India già vista, come se fosse un mondo a parte, più chiuso e comunque dalle tradizioni strabordanti e visibili. Varanasi ti frulla l’anima.
No Comments