Cosa ti può riservare il porta brochure di un motel 6, oltre a ristoranti in cui offrono 18 ribs di maiale per soli 7 dollari e 99 cent? Cose come “hey, ma il tabasco, è una roba che viene dalla Louisiana e non una salsetta industriale” oppure “hey ma i coccodrilli se li chiami vengono!” e informazioni utili di questo genere. Ma cominciamo dall’inizio. Grazie appunto a un’invitante brochure informativa, la gratuità del giro e la curiosità della visita decidiamo di dedicare la mattinata a scoprire da dove viene quella bottiglietta dalla forma inconfondibile, che per me, negli anni, ha significato solo una cosa: tartare di manzo.
USA
Louisiana. Meteo e descrizione generale del clima: “Subtropicale umido. Tra Agosto Ottobre, sulla costa si abbattono dei violenti cicloni subtropicali. E` pertanto consigliabile seguire costantemente i bollettini meteorologici e le misure di sicurezza in caso di cicloni”. Traduzione: nel sud degli Stati Uniti, tra la Louisiana e il Mississipi, d’estate, oltre ad esserci un tempo balordo peggiore di quello di Londra, fa caldo. Un caldo che sopporteresti volentieri solo dopo mesi in Siberia. Arriviamo a Lafayette dopo 4 ore di macchina e e sei (o sette?) donuts, un taco bell e il susseguirsi di paesaggi piatti e allagati dalle continue piogge, case vuote di gente che ha capito che quando non si mette bene è meglio spostarsi in territori più sicuri lontano dagli uragani. Palafitte. Si, anche qui ci sono un’infinità di palafitte, sicuramente più fashion e più ben rifinite di quelle cambogiane ma il principio è uguale: se piove è meglio non svegliarsi con il letto galleggiante. E quindi: foto a pozzanghere che riflettono splendide nuvole, cercare di arrivare al mare (non è uno scherzo, ci siamo infilati almeno in tre viette che puntavano al mare ma che non ci arrivavano), strada, strada, nuvole… E’ incredibile per quanto tempo il paessaggio possa sembrare sempre uguale. Affascinante, ma ammettiamolo, ma un tantinello palloso. Arriviamo a Lafayette, e il clima comincia veramente ad essere quello che che balza alla mente nell’immaginario comune, e quindi solo caldo e pioggia. Pisolino e poi ci buttiamo sulla strada, ma il clima, questo giro, è inclemente e il nostro tour programmato tra i piccoli paesini (Breaux Bridge, St Martinville e New Iberia) non è stato affascinante come previsto. Città mignon molto carine e caratteristiche con un delizioso fascino retrò fatto di piccoli negozi, casette in legno e quel clima di “fuori dal tempo” – e soprattutto fuori dagli Stati Uniti- che mi piace. Peccato per la pioggia. Ma qui, si sa, è stagione.
Sono una persona ironica? Si. Sono una persona autoironica? Si, abbastanza. Prendo tutto quello che mi capita in viaggio come un’avventura divertente? Si, decisamente.
La giornata di oggi peró sembra una barzelletta. Di quelle pessime. Quelle che racconto io di solito. Abbiamo dormito nella catena Best Value inn, economica ma oltre al fatto che la camera era gigante e pulitissima anche nei dettagli, nel prezzo era inclusa pure la colazione. E vai, circo dei freak. Accanto a noi si siedono due orientali, dalla parlata sembrano giapponesi. Voglio chiederglielo ma vengo fermata con un “dai, no”. E per una volta mi metto lí buona buona e mangio i miei cheerios (il mio muffin, il mio waffle) e bevo i miei sei o sette caffé. Dopo due secondo esatti confermo “sono giapponesi”- “e tu come lo sai?”. Ho detto solo “guarda”: il tizio accanto a me si stava mangiando l’intero waffle in un morso, dopo averlo agganciato da un angolo lo stava ingurgitando come un piatto di ramen. Intero. Tanto per capirci: il waffle é come un tortino che ha una forma preformata divisibile in 4, quasi come un quadrifoglio. E per chi non ha ben presente era piú o meno come vedere uno che mangia una pizza intera in un sol boccone partendo da un angolo. Rido. Ma lui non era il meglio. C’era una tipa completamente strafatta che parlava da sola, che ha preso cibo per sei e la questione waffle non le era molto chiara. La pastella va dosata in un bicchierino e poi messa sulla piastra. Lei ha riempito la fondina dei cereali. Probabilmente credeva fosse panna cotta o una cosa simile. Però la roba era buona e l’hotel bello. Davvero, andateci. Questo giro era solo pieno di personaggi strambi.
Non riesco a ricordarmi per cosa conoscevo Austin. Qualche cantante country? Impossibile. Qualche telefilm? Mi sa di no perché anche Grey’s anatomy era ambientato a Seattle. Non mi viene in mente ma adesso, finita un’intera giornata su queste strade, tra questa gente stravagante (o meglio, come piace a loro “weird”) posso avere almeno 10 buoni motivi per consigliarla e soprattutto per tornarci.
Gli americani sono un popolo gentile, educato, accogliente, avanzato per alcuni aspetti, contraddittorio per altri. Gli americani sono, però, anche un popolo di pazzi scatenati. Tralasciando Jackass e tutti i vari format di Real Time (tra accumulatori di cianfrusaglie e pazzi che fanno sesso con le macchine mi fanno più che altro paura), andate Roswell.
Partendo dal presupposto che non amo particolarmente andare sotto terra, un po’ perchè sono paranioca, un po’ perchè sono vagamente ossessionata e terrorizzata dai terremoti e temo che la sfiga colpisca proprio quando là sotto ci sono io e “morire soffocata da montagne di terra” non è proprio nelle prime 10 morti che sceglierei – se si potesse scegliere. A parte questo le caverne sono incredibili, enormi, immense.
La verità è che mi sono messa a piangere. La verità è che la bellezza a volte è un’emozione tanto forte che è difficile da contenere.
Mi sono documentata e non esiste una reazione simile alla sindrome di Stendhal per le bellezze naturali, esiste solo uno strano disordine (Nature Deficit Disorder) ma per le persone che, in mezzo alla natura, non ci riescono a stare.
Eppure dovrebbero coniarlo un termine simile perchè negli States capita spesso di trovarsi davanti a terre sconfinate e paesaggi surreali, meraviglie dalle tinte acquerello che ti fanno sentire dentro un quadro. Cioè, più una cosa impressionista che stile Mary Poppins.
La verità è che a distanza di giorni ancora mi piace ricordare quella sensazione di piedi nella sabbia, quel paesaggio irreale che sembrava più montano che desertico (indistinguibile dalle strade innevate!), come riassaporare un ricordo a 5 sensi, che scatena buone vibrazioni.
Ma partiamo dall’inizio.
Il monumento nazionale (quindi incluso nel pass) è a pochi chilometri dall’inutile cittadina di Alamogordo, conosciuta principalmente per essere stata la cittadina in cui hanno fatto i test pre-Hiroshima e per un pistacchio gigante entrando in città, ma la bellezza del posto merita la deviazione dai principali centri del New Mexico.
E’ come una sinfonia: arrivare al tramonto è come mettersi nelle cuffie Mozart e ascoltare l’orchestra che si allarga, e si fa spazio.
Entrando nel parco si vede un po’ di sabbia bianca qua e là, la strada leggermente sporca. E’ poi si fa neve. la strada sembra ghiacciata e ai lati, tra la vegetazione che cerca di sopravvivere nelle maniere più disparate si vedono queste dune, e poi prosegui e le colline sono più pulite e si scoprono queste dune intonse, completamente bianche su cui rimbalza una luce tenue. Al tramonto le colline bianche prendono una colorazione azzurro dorata, si perde il confine tra cielo e terra e tutto, davvero, sembra un quadro, un’opera d’arte di una mano esperta, una di quelle bellezze universali, un Renoir, che per un motivo o per l’altro, piace a tutti.
La descrizione può sembrare un po’ aulica, ma l’intensità della bellezza di quel posto è realmente fuori dal comune, tende a una perfezione innaturale che va raccontata con parole di critica artistica, anche se, a riguardo, sono una contadinotta ignorante. Ma ho i sensi ipersviluppati.
E la magia di questo posto è fuori dal comune perchè è tutta concentrata sulla vista, in una totale assenza di rumori e odori. Il vuoto sonoro ti rimbalza addosso e hai solo le mani e i piedi da immergere in questa neve asciutta.
Ho pianto di fronte a una bellezza devastante.
Abbiamo conosciuto dei signori 50enni, che si divertivano a bobbare su e giù per le dune, abbiamo provato e io mi sono divertita come una bambina e buttarmi dalla collinetta seduta su un enorme coperchio di plastica. Raccontavano di essersi sposati a Roma “tanti anni fa”, ma poi hanno sorriso, e si sono guardati con uno sguardo complice e felice. SI erano appena trasferiti in New Mexico, e si vedeva lontano chilometri quanto amassero sentirsi vivi.
Sarei rimasta anche di notte, ma ovviamente, quando si tratta di deserti si parla anche di serpenti, e io sono troppo fifona per fare amicizia con loro.
Ma White Sands è bella anche di giorno: si perchè non eravamo sazi da un primo giro e abbiamo voluto vagare per quelle dune ancora un po’…
Curioso, all’inizio dei trail devi compilare un foglio in cui indichi nome cognome numero di telefono e l’orario di inizio: ho sorriso, ma poi sulle dune ho capito. E’ incredibilmente facile perdersi! Il cielo, il bianco violento, è tutto uguale a 360 gradi! Forse è così stare nel Salar de Uyuni che desidero tanto? Su quelle dune, dove ho corso, rotolato, saltato e giocato come se avessi sei anni ci ho pensato poco. White Sands è semisconosciuto e bellissimo…e forse sono contenta così.
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Santa Fe è la più antica capitale del Nordamerica (quindi si parla di roba del 1600), appollaiata su un altopiano, e colpisce subito per la Plaza, su cui si affacciano il Museum of Fine Arts, il Palazzo del Governors, il camino Real è la principale via commerciale. E quello che colpisce di più è quest’aria un po’ mexican bohemienne (si, è un termine che ho appena coniato), le gallerie d’arte sono ad ogni angolo, e si possono trovare schifezze come meraviglie (mi sono innamorata di alcuni quadri che riproducevano in stile Wharol i personaggi del mago di Oz…stupendi!), e se qualcuno è appassionato si può dedicare a scoprire gli angoli nascosti in cui sono esposti i quadri di Georgia O’Keeffe, madrina della città, che dopo essere stata glorificata a NY ha scelto di ritirarsi a miglior clima da queste parti. Ovviamente il grosso della sua produzione è al Georgia O’Keeffe Museum di Santa Fe.
Nel mio immaginario, nello schedario dei “secondo me com’è”, sotto la voce “New Mexico” c’era solo una cartella vuota, un sombrero, due suonatori mariachi e un enorme punto interrogativo. Niente suonatori, nessun sombrero, solo un’alta concentrazione di gente che parla spagnolo e un’aria di storia che, beh, non è facilissima da trovare in giro per gli States. Non sono messicana, ho solo un 50% di sangue spagnolo, ma questo strano stato che confina con il Messico, quello vero, mi ha fatto sentire vagamente a casa. Forse no, ecco, non a casa, ma (usando un termine molto americano) “comfort”, nel senso che intendono loro di “comfort food”, tradizione con una punta di nostalgia. O forse neanche questo?
Sensazioni miste, ricordi a cinque sensi, quella strana sensazione di “hei, ma siamo davvero negli USA?”, equilibri strani in convivenze pacifiche. Benvewelcome in New Mexico!